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Non riuscirò a declinare qui l'essenza di ciò che sono stati i miei giorni in India. Il sorriso di un bambino che ti vuol bene schiettamente, quasi senza ritegno; i discorsi con suor Aleyamma, col tassista, con Krishna; le fantastiche chiacchierate notturne con Margherita a cercare di raccapezzarci, a comunicare gioie e dolori troppo grandi per essere rimuginate da soli. Tutto questo rimarrà dentro me, ben custodito. Mi costringerò a parlarne, con molta fatica, ai i miei amici più cari, come un dono preziosissimo. Posso farvi intuire brevemente una società fiera e patriottica, con una grande fiducia nel proprio paese e nelle sue capacità. Un sentimento ambivalente nei confronti dello straniero occidentale, ricco ma depravato, bello ma debole. E soprattutto, visto che non miro solo a provocare il rumoreggiare corrucciato e dolente di una platea di parrocchiani, vorrei dire due paroline sul viaggio, formidabile antidoto all'autoreferenzialità, nutrimento per la cosiddetta apertura mentale. "Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu" ("Nella mente non c'è niente che non sia già stato nei sensi" n.d.r.) non riesco a togliermi dalla mente questo adagio empirista, perché la cultura indiana può essere capita vivendola, solo respirandola, come tutte le
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