Mezzo secolo, una rivoluzione.

Il percorso di una comunità in una città che ha cambiato volto

 

E’ insieme sostanza e simbolo, materia e concetto, la bicicletta che Padre Giuseppe Nardin, appena insediato alla guida di San Camillo, riceve in dono dai suoi parrocchiani nel Natale del 1960. E sono ormai lontani i festeggiamenti della rituale “ganzèga” che nel settembre dell’anno precedente ha celebrato l’arrivo del cantiere al tetto della nuova canonica. C’è davvero da pedalare, in tutti i sensi, per chi si trova a dover tenere a battesimo una parrocchia neonata: sorta per le esigenze dell’impetuoso sviluppo urbano, ma non per questo con un percorso in discesa, anche all’interno del mondo ecclesiale. Dare vita a una nuova comunità parrocchiale significa necessariamente togliere spazio a vecchie delimitazioni, che vogliono dire anche consuetudini radicate; e a nessuno, religioso o laico che sia, fa piacere abbandonare i terreni conosciuti, le relazioni consolidate, diciamo pure le cementate comodità, per addentrarsi in un percorso nuovo ed incognito.

Storia antica, a partire dallo stesso Abramo («esci dalla tua terra e va’»), e ripetuta millanta volte nel corso della storia; ma mai semplice da vivere. Quella di San Camillo, oltretutto, è una realtà atipica rispetto alle nuove parrocchie sorte a Padova agli inizi del Novecento, sotto la spinta di un'urbanizzazione diffusa che assorbe nella città aree periferiche di salda e atavica tradizione contadina: a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, la ricostruzione sulle rovine post-belliche ha ormai preso il decollo. La presenza del policlinico e del monoblocco ospedaliero, costruiti negli anni Cinquanta a ridosso delle vecchie mura e proprio in quella zona, ha finito per dare vita, alle spalle della cittadella sanitaria, a un vero e proprio quartiere residenziale in cui gli operai sono pochi e i contadini ancor meno, mentre quelle ufficialmente censite come povere sono tre famiglie appena; vi abita un ceto di professionisti, impiegati, insegnanti, e di persone legate in qualche modo all'attività ospedaliera. Gente di un livello sociale e di reddito medio-alto, e al tempo stesso più esposta a quel vento di secolarizzazione di cui all'epoca si avvertono appena i primi segnali, ma che negli anni successivi soffierà in modo impetuoso.

      E' tuttavia un tempo di straordinaria vitalità per la Chiesa padovana, alla cui guida sta ormai da un decennio monsignor Girolamo Bortignon, la filosofia del cui episcopato è riassunta nel motto "caritas cum fide". Già dalla metà degli anni Cinquanta ha dato avvio ad una serie di opere rivoluzionarie, a partire dalla Casa della Provvidenza Sant'Antonio, a Rubano, la cui prima pietra è stata posta alla presenza del patriarca di Venezia Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII. Nel 1964, un anno prima che a San Camillo prendano finalmente l'avvio i lavori per la nuova chiesa, il vescovo ha aperto una parrocchia della diocesi padovana a North Kinangop, in Kenya, anch'essa intitolata al Santo: la prima di una rete di insediamenti missionari in Africa. E' proprio Bortignon a occuparsi e preoccuparsi della rapida crescita della periferia urbana e delle aree suburbane, istituendo nuove parrocchie: un po' come aveva fatto il suo predecessore Carlo Agostini negli anni Trenta, creando sette parrocchie immediatamente all'esterno della cinta muraria. Nell'episcopato di Bortignon si fondono e si intrecciano saldamente due elementi, che diventano parte integrante del Dna della chiesa padovana: la straordinaria capacità di intuire e realizzare opere e progetti d'avanguardia (come ad esempio il centro di formazione professionale dell'Enaip); e una cura assidua per la quotidianità, dalla pastorale ordinaria alla catechesi, dalla vita sacramentale all'associazionismo.

   Sono elementi che contano, in una fase in cui Padova sta impetuosamente omologandosi alle nuove realtà urbane di un'Italia in rapida trasformazione, con le spinte positive che ne derivano ma anche con forti tensioni sociali. Dopo decenni di stasi, nel giro di soli cinque anni nel Paese ben 11 milioni di italiani si mettono in movimento e cambiano tutto, residenza, stili di vita, status sociale. Nessuna delle tre culture prevalenti (cattolica, marxista, liberale), che nell'immediato dopoguerra avevano saputo trovare una sintesi alta nella Costituzione, riesce a mediare la transizione dal vecchio mondo contadino alla nuova società industriale. Padova è investita in pieno da queste dinamiche; e proprio negli anni in cui la parrocchia di San Camillo diventa operativa, vede esplodere anche al suo interno quella che verrà battezzata "la strategia della tensione", dall'attentato nel suo studio universitario del rettore Enrico Opocher in avanti, in una perversa alternanza tra trame nere (Franco Freda e Giovanni Ventura) e rosse (la città è teatro del primo omicidio delle Brigate Rosse, che nella sede del Movimento Sociale di via Zabarella uccidono a sangue freddo Piero Mazzola e Graziano Giralucci). I padovani vivono immersi in un clima avvelenato (basti ricordare le "notti dei fuochi", e i ferimenti e pestaggi di docenti universitari, giornalisti e intellettuali) in cui si mescolano delinquenza comune, manifestazioni politiche, assalti, minacce e scontri di ogni tipo. Un inquinamento delle coscienze ma anche delle relazioni, che scava fossati profondi, difficili da colmare.

       La voce della Chiesa, in un simile contesto, deve condividere gli spazi e riuscire a far passare il proprio messaggio in mezzo a mille voci discordanti; non riesce più ad esercitare quel ruolo di orientamento delle coscienze e di coesione sociale che le era stato proprio per secoli. Al tempo stesso, la città conosce una crescita impetuosa quanto disordinata: nel 1978, un anno dopo che la comunità di San Camillo ha celebrato il decennale della consacrazione della chiesa, l'anagrafe urbana registra poco meno di 243mila abitanti, massimo storico (ne perderà 30mila nei successivi vent'anni), e si espande verso l'esterno, di fatto assorbendo la rete dei Comuni contermini e dando vita a un unico confuso agglomerato.

 Ma  non è solo una questione edilizia o urbanistica. La città è uno stato d'animo, è stato giustamente rilevato. E la parrocchia di San Camillo, tra le ultime nate, si trova a dover fronteggiare tempi tumultuosi, in cui i cambiamenti si verificano a ritmo sempre più intenso, rendendo difficile il compito di tutte le istituzioni, civili o religiose che siano. Il lungo percorso di Padre Roberto Nava, iniziato nel 1980, è in fondo la sintesi di uno dei periodi più difficili per la vita padovana, che come buona parte del Veneto, un tempo definito "la sacrestia bianca d'Italia", ha smarrito valori e riferimenti secolari, ed è chiamata a imboccare nuove strade che sappiano comunque recuperare le antiche tradizioni di solidarietà e di inclusione ereditate dal passato.

      In questi quasi trent'anni è stato continuamente necessario, e lo è oggi più che mai, ripensare le iniziative pastorali, la presenza ecclesiale ma anche gli stessi linguaggi, in un clima segnato da un'accentuata flessibilità: quella materiale dei confini, che ormai non sono più solamente geografici, ma vengono rimodellati quotidianamente dagli spostamenti e dalla mobilità delle persone; e quella immateriale di una struttura demografica e sociale in cui le tensioni esterne, in particolare quelle indotte dall'immigrazione, si mescolano con quelle interne: nuove povertà, forme di emarginazione, rottura dei legami familiari. Il risultato è un senso diffuso di insicurezza, di disagio, di vero e proprio inquinamento ambientale che investe non solo l'aria, l'acqua, il suolo, ma anche e soprattutto le relazioni. Se ieri San Camillo era lo specchio di una Padova avanzata, oggi ne rappresenta la media: una città in forte evoluzione socio-demografica, dove ormai un quarto della popolazione residente è in età anziana; dove la crescente presenza di immigrati di tante etnìe diverse alimenta tensioni diffuse, dalla scuola alla casa, dal lavoro alla sanità, con tutti i problemi legati alla convivenza tra diversi; e dove gli spostamenti di residenza ma anche e soprattutto di reddito e di condizione di vita producono un continuo rimescolamento della popolazione, che pone domande in impetuosa modifica. Lo dimostrano le esperienze concrete maturate a San Camillo, a partire dalla casa di accoglienza, risposta a un'esigenza concreta a sua volta legata al mondo della salute e ai cambiamenti in atto al suo interno.

      Da qui la necessità odierna di un radicale ripensamento del modo di essere comunità, che si traduca in un vero e proprio piano regolatore socio-economico della città, promuovendo un'urbanistica non solo dei luoghi ma anche della convivenza. La base di partenza non può che essere rappresentata dalla comunanza dei valori: la nostalgia del passato non aiuta e non serve; occorre ricostruire valori e relazioni su basi nuove, puntando a coinvolgere i soggetti, cominciando dal sempre ricco tessuto associativo che rappresenta un capitale sociale di grande importanza. Se le imprese si ristrutturano, se le politiche si modificano, se perfino le fedi si interrogano sulle proprie esclusività, a maggior ragione anche le persone devono sapersi rimettere in discussione. E' un impegno che chiama in causa prima di tutto la politica, ricordando la splendida definizione del cardinale Martini: "Fare politica oggi significa dire al tuo prossimo che non è solo". Una politica che sappia essere all'altezza dei cambiamenti in atto, e che deve riprendere il suo compito primario di guida, senza delegare le scelte e la rappresentanza ad altri soggetti. Oggi la politica parla quasi esclusivamente di economia, di produttività, di conti che non tornano; deve invece saper affrontare lo snodo strategico di tracciare il piano regolatore di un futuro possibile: dove quello che si è, che si impara ad essere, che si diventa con salutare fatica, conti almeno quanto ciò che si ha; dove si riesca a darsi un obiettivo che sia qualcosa di più e di diverso dall'aumento del Pil o da un budget aziendale; dove sia possibile impegnarsi in  attività che arricchiscano anche e soprattutto la relazione, non solo il portafoglio.

     Ma in un compito così impegnativo, la politica e le istituzioni non possono essere lasciate sole. Hanno bisogno di essere sostenute dal consenso sociale di quelle parti della città che sono in grado di valutare e condividere questi obiettivi attivando una rete a tempo pieno, anziché mobilitarsi solo a ridosso di particolari eventi o scadenze. E' un compito cui le comunità parrocchiali sono chiamate in prima persona, ciascuna sulla base della propria specifica vocazione. E parlando di quest'ultima non si può ignorare quella che rappresenta la missione specifica di una realtà come San Camillo, sintetizzata fin dal nome, e dalla storia della persona che lo porta. Un uomo, Camillo, divenuto frate dopo una vita tormentata, e che ha sperimentato sulla propria pelle cosa significhi la sofferenza, e tutto ciò che essa comporta a partire dalla solitudine e dall'isolamento. Il suo pensiero, più che mai attuale, è condensato in quelle 71 regole che rappresentano un vero e proprio codice deontologico, tale da rappresentare ancor oggi la base di un'autentica riforma ospedaliera. "Servire con ogni perfezione gli infermi", è il titolo di quel manuale. E giustamente Giannino Martignoni, in un libro del 1983, definisce in tal senso san Camillo de Lellis un precursore della riforma sanitaria. Bisogna guardare alla situazione dell'Italia dei suoi tempi, a fine Cinquecento: una realtà inadeguata o carente dal punto di vista sanitario, con malati emarginati, e nella quale gli ospedali rappresentano un rifugio di disperati; "ospizio", nel senso letterale del termine. E' Camillo a cambiarne la fisionomia, facendolo diventare "ospitale", sostantivo e aggettivo al tempo stesso. Ma è lui, soprattutto, a scoprire il valore e il significato dell'uomo debole, dei tanti poveri Cristi privi di tutto, anche di chi possa aiutarli a portare almeno per un tratto di strada la loro personale, pesantissima croce. L'uomo di oggi è appesantito da mille debolezze, non solo materiali ma anche e soprattutto morali. Per questo, cinquant'anni dopo, chi vive e opera nel nome di San Camillo può contribuire al bene comune scegliendo di stare dalla parte degli ultimi. Per aiutarli a diventare i primi, secondo la promessa evangelica: qui ed ora.

Francesco Jori

 

...Storia antica, a partire dallo stesso Abramo («esci dalla tua terra e va’»)...


 

...la Chiesa padovana, alla cui guida sta ormai da un decennio monsignor Girolamo Bortignon...


..le tensioni esterne, in particolare quelle indotte dall’immigrazione, si mescolano con quelle interne: nuove povertà, forme di emarginazione...


 

...chi vive e opera nel nome di San Camillo può contribuire al bene comune scegliendo di stare dalla parte degli ultimi...

 

 

 

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